Terra arida e solitudine nel nuovo disco di Cesare BasileTra i solchi di Saracena il silenzio, l’abbandono. Ho capito la fragilità e la ruggine.
La Sicilia. La Palestina. In fondo l’uomo sempre e comunque, costretto, derubato, quella libertà come concetto sempre troppo politicizzato. La sacralità del dolore suona e graffia la pelle dentro questo nuovo disco di Cesare Basile, fatto anche di strumenti nuovi, inventati dalle sue mani, dalle sue ricerche. Il vecchio torna nel presente ma con vesti inedite e dialoga con l’elettronica e il futuro. È un disco urgente, lento come un mantra da ripetere, cadenzato come un rituale antico, puntuale come il tempo che corrode ogni cosa. Ad ogni ascolto Saracena mi ha portato via qualcosa. È forse per me il più bel disco di Cesare Basile. Io partirei dalla copertina. Il suono di Saracena è un suono quasi apocalittico, rituale, di arida terra e di abbandono. In copertina i colori mi mostrano un ulivo, un segno di vita, di resistenza…
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