Non sarebbe coerentemente possibile parlare di Joe Cocker senza calcare la mano sulle sue inconfondibili doti vocali che hanno determinato un fattore di successo che potremmo definire unico nel suo genere. Sarebbe però allo stesso tempo troppo facile e riduttivo ricamare sul tratto rauco della sua voce afona, estremamente white blues, imitato, per non dire “scimmiottato” da molti altri artisti. Una voce che ha fatto davvero scuola, ma visto il contesto in cui Cocker è asceso al successo, sarebbe forse più corretto dire che ha fatto epoca.
La rinascita di Joe Cocker avvenuta negli anni ‘80 dopo un lungo travagliato periodo fatto di cure disintossicanti, alterni ritiri e ritorni sulla scena non particolarmente riusciti, ha comportato una maturazione esemplare e la definizione di uno stile che, pur nella sua sofferta raffinatezza, mantiene ancora il tratto greve di una vocalità speciale e di una personalità sofferta. C’è chi addirittura, alludendo ai trascorsi di alcolismo e tossicodipendenza, ha ipotizzato di una precisa volontà di autolesionismo da parte del Cocker di quegli anni, per aiutare a mantenere quella spiccata qualità vocale così particolare, sgraziata, ma allo stesso tempo profonda e vibrante, unitamente a una gestualità clownesca in cui l’artista finge di suonare una chitarra, rivelandosi poi espressione sanguigna di quanto Cocker sentisse con profondità ciò che interpretava, tanto da immolarsi forse inconsciamente sui limiti del ridicolo. Il vezzo di scimmiottare un “play guitar” fatto d’aria gli è rimasto ancora oggi e addirittura nel tempo ha generato uno stuolo di adepti che ne hanno fatto uno stile, magari più elegante ed elaborato ma forse per questo farsesco ed esilarante.
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